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  • Percorsi incrociati nella pittura di Cesare Dei - Giuseppe Nicoletti

    Percorrendo cursoriamente la biografia di Cesare Dei attraverso la puntuale e affettuosa testimonianza della figlia Adele, si resta colpiti da un dato sopra ogni altro, e cioè dalla sua figura di artista totale, capace di un’applicazione estetica ad ampio raggio, naturaliter sperimentale e tendenzialmente ubiqua, e non solo per quanto attiene alle tecniche dell’arte figurativa in senso stretto, ma più in generale per altre modalità e manifestazioni d’arte che egli sentiva di dover interpretare. La scrittura in primis, che per tutta una vita esperì in quasi ogni sua forma, dal romanzo alla fiaba, dalla poesia al saggio critico e fino all’aforisma, quest’ultimo secondo procedimenti tipici di una certa apoditticità autoriflessiva propri della stagione dell’arte concettuale degli anni Settanta. Cesare Dei fu poi astretto, sembra di capire, da un’ansia mai completamente appagata di conoscenza e di ‘esplorazione’ non soltanto intellettuale: la voglia di conoscere ciò che ci sfugge alla vista immediata e che per forza di cose ci è ignoto ci spinge poi a varcarli, quei limiti imposti, ed è quella la motivazione più profonda della curiosità visiva e dunque del viaggio che, per l’artista, si trasforma in un’avventura degli occhi, in un confronto salutare e propulsivo con forme meno consuete, specie rispetto a quelle obbligate e obbliganti dell’ambiente domestico. Il viaggio può diventare allora l’occasione di un processo di metamorfosi profonda o almeno di rinnovamento e di revisione di talune strutture e abitudini ‘figurative’ che pensavamo immutabili, come fossero state componenti di un codice genetico.

  • Ebbene, di viaggi, Cesare Dei, in anni non sospetti (soprattutto prima che i dolci inganni del turismo di massa non imponesse quasi a tutti itinerari e percorsi preordinati) ne compì molti, da giovanissimo e da adulto, e in ogni parte del mondo, e ciò forse ci aiuta a spiegare alcune modalità stilistiche della sua ultima produzione di cui diremo. Ma poi, ad onta di una sua esposizione piuttosto tardiva come artista ‘professionale’ e ad onta di un carattere che di certo non favorì un rapporto particolarmente empatico con il pubblico e con il mercato, il Dei si orientò fin da giovanissimo al fine di realizzare e definire la propria personalità attraverso l’espressività figurativa, magari prendendo la scorciatoia (o sfruttando l’inconscio pretesto) di un’artisticità applicata, come quella, nel suo caso, del lavoro e dell’arte della ceramica. Non conosciamo quali siano stati in questi anni di apprendistato i suoi lavori e le tipologie stilistiche da lui effettivamente coltivate o realizzate nel settore della ceramica (in realtà non pochi artisti toscani vi si applicarono con risultati talvolta straordinari, viene in mente, come è ovvio, prima di tutti, nel secolo appena trascorso, il caso di Galileo Chini) e tuttavia dobbiamo pensare che anche in seguito egli non disgiunse mai l’esercizio dell’arte da una compromissione manuale e pratica. La manualità operativa restò sempre per lui una conditio se non indispensabile certo fortemente coadiuvante la ricerca ispirativa e l’ideazione: lo dimostra alla fine del suo percorso di artista l’interesse che provò per la scultura in legno e, più in particolare, per una ricerca espressiva che dal recupero e dal riuso di materiali allotri e non ‘istituzionali’ mirava assai modernamente ad una rappresentazione emblematicamente veritiera della modernità, vale a dire di una realtà, quella dei nostri giorni convulsi e alienati, altrimenti negata ad una plausibile cifra di astratta e ‘intangibile’ armonia.

  • Ma del lavoro del ceramista (nella sua seriale manualità e, diciamo pure, dal carattere strettamente ornamentale e applicativo) che in varia misura dovette impegnare l’artista negli anni della formazione e della prima maturità (prima cioè di scegliere l’insegnamento artistico come professione primaria), di quel lavoro, dicevamo, apparentemente così modesto, legato com’è a modalità di tipo artigianale, possiamo ritrovare le tracce, nonché gli spunti di una misurata invenzione, anche in un altro ambito della variegata e sempre rinnovantesi operosità di Cesare Dei, e cioè nelle tavole e nelle illustrazioni originali con le quali l’artista arricchì la proposta editoriale dei suoi (non di rado) fortunatissimi libri per ragazzi. Non è questo il luogo per un esame approfondito di queste tavole che, in quanto tali, rientrano, come ognun sa, in un genere figurativo stilisticamente circoscritto e storicamente ben distinto da altre forme dell’agire artistico. Abbiamo tuttavia sotto gli occhi la riproduzione di una tavola che ben si presta a una tale verifica tratta dal libro forse più conosciuto del Dei, pubblicato in prima edizione addirittura nel 1941, Il viaggio di pulcino Pip.

    Si tratta di una scena nella quale il pulcino eponimo dialoga con una farfalla posta sulla foglia di un anemone: è una scena semplicissima nella sua lineare evocatività favolistica e dove l’elementare iconografia trova sostegno e giustificazione proprio nelle nitide campiture, in un segno che in tanto è preciso e privo di sbavature in quanto rispetta un codice e un gusto tipici delle illustrazioni per l’infanzia di questi anni fra le due guerre, un gusto spesso deversato da un più laborioso esercizio di ornamentazione applicativa e di netta derivazione artigianale.

  • Ma è del pittore che infine dobbiamo parlare più in esteso e ciò per offrire un viatico passabilmente utile per questa esposizione cui è affidato il difficile compito di una rappresentazione monografica e quindi rispettosa dell’intero percorso pittorico dell’artista. Di un tale percorso, le prime opere qui proposte paiono già testimoniare una sostanziale maturità, cosicchè i cosiddetti primordi, e cioè i suoi primi passi nell’accidentato cammino dell’arte, quasi non è dato cogliere in lui, se appunto dei primordi la caratteristica essenziale è quella dell’incertezza o almeno di un titubante eclettismo tipico del neofita che si è appena avviato su una strada di cui non conosce preliminarmente lo sbocco. Infatti, fin da subito nella pittura del Dei è dato riscontrare, se non altro, una mano già scaltra e sostanzialmente padrona dei propri strumenti espressivi: l’Autoritratto a grafite del ’35, ad esempio, può forse far pensare ad uno studio di sapore accademico per quell’insistente ricerca della riconoscibilità fisiognomica, ma proprio per la sua oltranza analitica il disegno richiama piuttosto alla mente la poetica dei «pittori moderni della realtà» (i due fratelli Bueno, Sciltian, Guarienti, Annigoni ecc.) che ‘agirono’ in gruppo, e proprio a Firenze, dieci anni più tardi, durante una breve ma significativa parentesi di impegno anti-neorealista siglato da un vero e proprio manifesto e dalla costituzione di un movimento. Tuttavia il Dei, a quanto è dato sapere, non si pose mai in una posizione di scontro, né assunse atteggiamenti di una specifica o dichiarata militanza, neppure negli anni quaranta e cinquanta, perennemente movimentati da discussioni e polemiche, non sempre attinenti e non tutte interne al perimetro disciplinare delle arti figurative; semmai a metà degli anni quaranta, proprio in una fase di preparazione e di verifica ad ampio raggio delle presenze in campo, si coglie il segno di un suo preciso ancoraggio alla lezione di un maestro allora piuttosto scomodo come Ardengo Soffici.

  • Mi riferisco al ritratto dedicato alla Madre e, soprattutto, ad una serie di paesaggi (tutti datati 1944) che indubbiamente rivelano quel colorismo acceso di una toscanità imbevuta di succhi ottocenteschi e tuttavia attinti anche ad una fonte ben altrimenti moderna come quella impressionista, una modalità di rappresentazione e un colorismo dimidiato che restano tipici della pittura del maestro di Poggio a Caiano, specie negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale. Ecco, per alcuni anni (e proprio in quel torno di tempo che abbiamo visto, tutt’intorno, accendersi di vistosi bagliori polemici) Cesare Dei scelse invece il proprio domicilio pittorico nel territorio più affidabile e non poco rassicurante di questa tradizione e avendo scelto maestri molto ben riconoscibili e indiscussi. Oltre a Soffici, a tener conto di due nature morte del ’45, e cioè Sassi e ossi e Sassi ritti, Dei sembra prediligere una certa linea novecentesca che lega in ambito toscano il tenue classicismo di un Carena o di un Colacicchi alla più intensa e profonda (e assai più fortunata) sintassi morandiana dell’oggetto metafisico. Come si vede, la caratteristica di una continua variatio (in questo caso soprattutto dei referenti di poetica via via trascelti) va colta anche in questa fase della sua produzione che, se non vogliamo definire di ripiegamento, certo può dirsi di attesa, di studio e, come si è detto, di preparazione. Già a partire dalla metà degli anni cinquanta però l’indirizzo e l’orientamento di Cesare Dei sembra precisarsi meglio, venendosi al contempo attenuando una più facile vena.

  • Appartengono infatti a questi anni (e proprio al ’55) alcuni quadri di grande significato nella sua storia di pittore: sono rappresentazioni di esterni, alcuni dei quali dichiaratamente fiorentini (come Sulla ferrovia dove è ripreso un capodopera architettonico del secondo futurismo), ovvero riproducono interni rigorosi e spogli dove talvolta compare in una posizione marginale e come episodica una figura isolata, silente, a indicare forse il senso religioso di un’autointerrogazione profonda, di un memento inevitabile (Annunciazione; Il teologo). È proprio la dimensione del silenzio, anzi, il risultato cui sembra tendere queste gruppo di opere nelle quali prevale un ductus geometrico e lineare e un senso forte di chiarezza e di nitore compositivo (un esempio di particolare rilievo è costituito da Stabilimento, sempre del ’55, per la riuscita sequenza in scala dei diversi piani della rappresentazione, sequenza fermata nello sfondo dalla struttura in verticale del traliccio).
    Non è chi non riconosca l’indubbia suggestione di queste opere dettata in prevalenza da un gusto di essenzialità puristica che si sposa con la lezione della metafisica. Ma è una metafisica speciale, in un’accezione tutta interna alla linea più discreta e alla misura, come si è detto, della ricerca toscana degli anni fra le due guerre. E così, il risultato raggiunto con queste opere e dunque anche la conquista di una più ferma maturità tecnica induce l’artista, evidentemente, a varcare il limite di un’arte d’impianto più astratto e intellettualistico come quella appena descritta e, con una certa animosità, a procedere sulla strada di una pittura, sempre sorvegliata e rigorosa, ma dettata da un sentimento aperto e quasi vitale del quotidiano.

  • Siamo in presenza cioè di alcune opere, più spesso ritratti o figure, che paiono affidarsi ad una ispirazione immediata e quasi domestica (e comunque debitrice di una disposizione d’animo legata in gran parte agli affetti familiari), un’ispirazione che caratterizza il periodo terminale degli anni cinquanta. Due sono a nostro avviso le opere più intense di questa fase del lavoro del Dei, parliamo cioè dell’Autoritratto col cuscino (1957) e di un quadro intitolato Libri, libri (1960), due opere che dimostrano certo quella maggiore distensione espressiva e affettiva di cui si è detto, ma senza perdere un ette di una ormai raggiunta padronanza tecnico-stilistica del proprio ‘mestiere’.

    Nell’Autoritratto rispuntano così i segni di quel fare analitico che già avevamo posto in luce nell’autoritratto ‘gemello’, eseguito a matita vent’anni prima, ma questa volta l’impianto, anche a prescindere dalla diversa tecnica adottata, risulta assai più ambizioso: qui la ricerca non punta in esclusiva sulla precisazione del tratto fisiognomico, quanto invece su una serie di rimandi e allusioni fin’anche di ordine simbolico, come dimostra la scelta di raffigurarsi a torso nudo, richiamando una maniera antica e ‘borghesemente’ eroicizzante di rappresentazione dell’io.

  • In Libri, libri a prevalere è invece la felicità di un investimento affettivo e dunque di un’empatica osservazione del soggetto prescelto: che non sono tanto i libri (di cui al titolo) che qui si ammucchiano sul tavolo, quanto la figura della fanciulla che legge, un soggetto questo che alla lontana riporta a tanta pittura di genere e di sapore domestico (a far data almeno dal XVIII secolo) ma che alla nostra sensibilità di moderni può richiamare più direttamente i precedenti di un Renoir o, se si vuol restare in ambito italiano, la lezione primonovecentesca di un suo emulo come Armando Spadini.

    Pensiamo che si possa dire che non fu nella natura di Cesare Dei dormire sugli allori e neppure sentirsi appagato di un risultato quale che fosse. Del resto, non tutti gli artisti (e lui fu tra quei pochi) riescono a contentarsi di formule e di scelte di poetica poi destinate a trasformarsi in una sorta di marchio di fabbrica, in un comodo logotipo che consente di essere immediatamente riconosciuti e che finisce per limitare il lavoro dell’arte alla mera variazione sul tema. Anche questa volta, ed anzi ora in modo assai più radicale e deciso, egli sentì la necessità di cambiare registro e di seguire più avventurosamente l’alea di una ricerca in continua evoluzione. Fu così che, agli inizi degli anni Sessanta, sembra entrare in crisi per lui (ma è di certo crisi salutare e benefica) il complesso sistema di poetica che l’artista aveva maturato e messo assieme fino a quel momento sulla scorta, come si è visto, di un atteggiamento di sincera adesione a una certa tradizione toscana e novecentesca.

  • Di conserva con una impetuosa trasformazione degli assetti economico-sociali del paese, erano quelli, come è noto, anni di grande e spesso tumultuoso rinnovamento linguistico nel campo delle arti figurative e perciò non desta meraviglia ritrovare anche Cesare Dei alle prese con le difficoltà che quasi tutti gli artisti allora avvertirono. Era infatti il momento cruciale in cui la prassi della figurazione pur variamente interpretata venne a collidere con i processi che dall’astrattismo delle avanguardie stroriche giungevano a maturazione nelle esperienze contemporanee dell’informale e in una pittura ancor più contestativa e nuova, questa volta di ascendenza anglosassone e americana, che puntava sull’enfasi e sul macroscopico per alludere all’irrealtà e all’alienazione del cosiddetto ‘sistema’ delle società occidentali. Cesare Dei, per parte sua, trovandosi a vivere e a operare in questo contesto, seppure da una postazione defilata come era già in quegli anni la realtà culturale di Firenze (peraltro di gran lunga più viva e sollecitante dell’attuale, quasi asfittica e improduttiva) non si sottopose intelligentemente a conversioni improprie o troppo repentine ma si avvicinò per gradi ad un nuovo modo di esprimersi. Lavorò dapprima, di preferenza, su tavole e carte con tempere e tecniche miste e su soggetti che mantenevano un loro rapporto con la referenza naturalistica. Ne sortirono composizioni gremite di segni, più spesso intrichi di elementi botanici, rami e foglie che intrecciati furiosamente restituivano un’immagine fatalmente astratta della realtà naturale.

  • Era la dimostrazione che l’oggetto nasconde in sé, invariabilmente, il suo esatto contrario, ovvero che ciò che ci appare rassicurante nella sua esterna confezione figurale, se decontestualizzato e se analizzato in una proiezione microscopica, rivela un’essenza apparentemente caotica, si muta in qualcosa di inconoscibile, in un congegno inquietante nella sua ossessiva, ma sempre differente, ripetitività.
    Proseguendo nella sua ricerca il Dei compì allora un passo ulteriore sulla strada di un’arte non assistita dall’autorità (per alcuni ritenuta dogmatica e inibente) della figurazione tradizionale, abolendo quasi del tutto il nesso congiuntivo con le verità (apparenti e tuttavia clamorose agli occhi dei più) del fattore naturalistico. Questa volta volle misurarsi con una verità diversa che era poi quella della propria immaginazione o almeno con una forma di elaborazione fantastica di cui l’artista è il titolare e il responsabile, ma che di necessità deve tener conto degli inevitabili condizionamenti del proprio contesto di cultura. Si trattava intanto di utilizzare di preferenza materiali e supporti più ‘svelti’ e meno impegnativi, e quindi ancora guazzi o tempere su carta, e di elaborare delle immagini capaci di allertare un’energia profonda quasi di ordine inconscio. In queste opere sembra di cogliere delle forme in movimento, assai contrastate, luminescenti, come delle lingue di fuoco che si stagliano su un fondale quasi sempre scuro: ma è quello un movimento collettivo, da coreuti un po’ invasati, che tuttavia presuppone un ritmo, le cadenze di una danza di gruppo, partecipata e comunitaria per quanto capricciosa e quasi orgiastica.

  • È il momento in cui l’artista, di solito assai riflessivo e ben radicato nell’austera deontologia del proprio ufficio, tocca il massimo di libertà espressiva e l’apice di una sperimentazione priva di imposizioni d’ordine intellettuale, dopodichè (e siamo ormai a metà degli anni Sessanta), quasi dovesse procurarsi una specie di antidoto rispetto agli ‘eccessi’ e alla ‘sfrenatezza’ di quelle raffigurazioni, egli realizza una serie di opere improntate ad un giuoco di forme geometriche eleganti ma castigate in una sorta di severa monocromia. Sono geometrie in movimento che si legano indubbiamente alle pregresse esperienze di un piccolo gruppo di artisti fiorentini (da Vinicio Berti a Gualtiero Nativi e a Monnini) a quel tempo abbastanza in vista nel panorama artistico toscano e nazionale i quali si ritrovarono solidali nella promozione «della formula-manifesto dell’astrattismo classico». A questo gruppo di opere, rese interessanti proprio per la loro stringente e suggestiva essenzialità, fece quasi subito sèguito una serie di varianti, realizzate a loro volta in squillanti cromie (e che ricordano l’analisi di strutture elementari secondo la maniera del Malevič suprematista).

    Ed è a questo punto che, portando ancora più avanti una propria critica al concetto di imitazione della natura, si assiste alla nascita e alla prima elaborazione di quella specialissima forma, singolarmente dimidiata tra astrazione e metafisica, che rappresenta l’approdo definitivo della ricerca di Cesare Dei, occupando quasi per intero il suo ultimo lavoro d’artista. Sono forme che di certo nascono da uno studio di tipo geometrico e quindi, come tali, sembrano rispondere dapprima a un’esigenza di definizione rigorosa e quasi di misurazione compendiaria della realtà visibile.

  • Ma poi, con il prevalere nella rappresentazione di linee curve e di segmenti irregolari o di forme spezzate, come fossero dei frattali o comunque dei corpi privi di interna logica ordinatrice, ecco che la scena si viene a popolare di oggetti enigmatici, non sai se più minacciosi o grotteschi: sono entità estranee all’usuale commercio visivo dell’uomo comune che, pertanto, resta incerto se leggerli come effetti di un’inquietudine che può perfino destabilizzare, oppure come prodotti di un’ironia, magari anche acre e maliziosa, ma tutto sommato innocua.   È assai probabile, noi crediamo, che proprio da queste forme così poco consuete (e talora addirittura disamene nel loro capzioso viluppo formale) Cesare Dei volle sentirsi rappresentato più compiutamente e dunque proprio ad esse, malgrado la loro irregolare costituzione, egli pensò di affidare il testimone di una sua più originale creatività, il lascito più personale e segreto della sua arte. Si trattò forse di un disegno rischioso ma calcolato ovvero, al contrario, del frutto di un exploit non premeditato poi stabilizzatosi nella prassi del proprio laboratorio? Sta di fatto che a prevalere in lui, questa volta, dovette essere una ferma volontà di elaborare qualcosa che fosse pienamente rispondente alle proprie corde, di cui fosse il solo responsabile, una volta slacciato da ogni ipoteca imitativa, di un’imitazione quale che fosse, fosse cioè legata ad una matrice naturalistica, oppure al superego dell’ingombrante tradizione, e ciò per correr miglior acque, al di là di norme e divieti, finalmente liberato, battezzato ormai dal proprio estro.    

    Firenze, gennaio 2007