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Cesare Dei alle origini del "citazionismo" - Francesco Gurrieri
«Bisogna rendersi conto che lungo e breve discorso giungono al medesimo fine»
(Epicuro, 341 – 270 a.C. )Ci siamo chiesti più volte del valore della «citazione» in arte e delle sue ragioni sorgive. E troppe volte abbiamo liquidato il problema critico, del «citazionismo», appunto, come un movimento o un contenitore di movimenti, capace di esprimere il valore che la riproposizione comporta di una forma di esperienza o di scrittura; dicendoci anche come «l’esperienza è già ripetizione, così che il testo diventa un libro nel libro, proprio per l’intrinseco valore citazionale che hanno ogni esperienza e ogni scrittura». Ed a ben pensarci e volerla dire tutta, c’è il sospetto che ogni rigorosa filologia – intesa sul versante interpretativo e di derivazione dell’ambiente culturale – altro non sia che una ricerca di continuità (o di derivazione) linguistica, e dunque, qualcosa di riconducibile al «citazionale».
Se allora accettiamo l’idea che il «citazionismo» non sia un movimento artistico subordinato ai grandi cicli artistici consacrati, ma una necessaria condizione creativa, si fanno due operazioni con una sola riflessione: si espunge l’idea che il «citazionismo» di questi ultimi anni non abbia una sua legittimazione di «movimento» e si introduce nel processo critico, appunto, il principio che il dato citazionale possa essere una condizione generativa e creativa gerarchicamente indipendente, di autonoma dignità. La riflessione non è di poco conto, perché investe l’attualità e il Novecento, ma in linea di principio anche l’arte dei secoli passati, anche quelli manualisticamente consolidati. Boltraffio (un artista proposto da Berenson nel suo The Italian Painters of the Renaissance, 1932) è un «citazionista» di Leonardo, come Rubens lo sarebbe dei Carracci. Dunque è questione di intenderci e di affrontare i problemi artistici senza schematismi pregiudiziali e impalcati gerarchici.
Questa riflessione pregiudiziale è importante per avvicinarci a Cesare Dei e alla modalità della sua formazione. Il Dei (1914 – 2000) si forma, come molti altri artisti demograficamente sincroni, negli anni fra le due guerre ed esprime la sua maturità (e complessità) artistica nei decenni centrali del Novecento. È un artista che vanta un’apprezzabile attenzione critica (diciamo subito di Masciotta, Lara Vinca Masini, Elvio Natali), un’altrettanta apprezzabile serie di mostre personali (dal 1955 al ’99), ed è, soprattutto, un 'testimone' del suo tempo, del quale ha assorbito e talvolta 'citato' linguaggio e movimenti presenti sul parterre della cultura artistica.
La formazione
Chi si era formato all’arte in Firenze, doveva fare i conti con uno scenario assai vivace, differenziato (oggi diremmo con più offerte culturali compresenti) e non poco determinato nelle scelte di campo.
La fine degli anni ’20 e lo svolgimento dei ’30 sono quelli della formazione del giovane Cesare. Coincidono con l’arte dell’Italia fascista: fu questo il coraggioso titolo che Fernando Tempesti dette al suo libro, pubblicato nel 1976 con Feltrinelli, da considerarsi il primo studio che ripercorse l’arte di quel ventennio con rigore, senza pregiudizio e con la coscienza (democratica e non certo nostalgica, come testimonia la ragione sociale editoriale) di uno studioso che si basava su dati e circostanze documentali; e ciò ben quattro anni prima della kermesse del 1980, sotto la piazza del Duomo di Milano, ove si celebrò «L’Arte degli ‘30», allontanandola dalla granitica condanna che ancora si portava dietro .
Cesare Dei, che si forma all’Istituto d’Arte di Firenze, va dunque ricondotto all’interno di quella «piramide della cultura e del mercato dell’arte» del tempo, alla sommità della quale stavano Papini, Soffici, Ojetti e Raffaello Franchi; ai quali vanno riferiti artisti e linguaggi; non trascurando il fatto che il Dei, come vedremo, fu impegnato anche nell’editoria scolastica e nella letteratura per l’infanzia.-
Né si deve dimenticare il passaggio da Firenze, nel 1912, della «Prima Mostra dell’Impressionismo francese», organizzata al Lyceum, ove fu visto Cézanne, imprimendo ai giovani artisti del tempo sollecitazioni irreversibili. Fra il 1912 e il ’20 – l’anno del «rappel à l’ordre» – si ha una stagione importante, ove si cominciano a delineare rapporti di forza e lineamenti di 'scuola'. Il dibattito è vivacizzato dal consolidarsi e dall’avvicendarsi di riviste (sempre caratterizzate da un mix artistico-letterario) e dalla produzione di libri. Spadini, Costetti, De Carolis, si schiereranno nel «Leonardo»di Papini; alla «Scuola di Porta Romana» (che avrà nume tutelare Ugo Ojetti) si formerà l’asse Libero Andreotti, Maraini, Bruno Innocenti; all’Accademia, con Trentacoste ci saranno Marino Marini, Bruno Catarzi e Carena. Resteranno fuori, attestati su una propria 'area simbolista', Boecklin e Klinger; non corrisponderanno del tutto al 'richiamo all’ordine', Colacicchi, Baccio Maria Bacci, Primo Conti. Fortissima e lungamente influente resterà la couche di Rosai, a cui, più tardi, molti faranno riferimento e resteranno fedeli, a partire da Dino Caponi, Tirinnanzi e Faraoni. Come si vede, uno scenario ben complesso ma estremamente fertile a cui poté affacciarsi il giovanissimo Dei. Né mancavano i Ragionamenti sulle arti figurative che, poco più tardi (1936), Severini avrebbe pubblicato con Hoepli, con grande diffusione anche didattica.
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Le sollecitazioni culturali
Nel suggestivo spettro artistico degli anni ’30 – quelli a cui si affaccia il Dei nel completare i suoi studi ed avviare una propria produzione - vi sono sicuramente altre sollecitazioni a cui è doveroso accennare, proprio per la opportunità di citazioni che dovremo poi riprendere. Si vuol dire, ad esempio, dell’ansia metafisica di Casorati, poi riconnotata da De Chirico e Savinio; del formalismo arcaico di Campigli, della diluita einconfondibile materia pittorica di Costetti. Ma chi, soprattutto, dovette suggerire linguaggio e cromìa a molti, fu sicuramente Alberto Magri: un artista poco citato, ma che non sfuggì alla sensibilità vigile di Alessandro Parronchi che lo rese imeediatamente noto. «Nel Magri (1880–1939) – scriverà Parronchi (e noi lo giriamo per il Dei) - i modelli antichi non trasparivano, denunciando il carattere intellettualistico della sua arte. Al che ci sarebbe da ribattere che, più che di modernità, per Rousseau, convien parlare di atemporalità. Non così pel Magri, che coscientemente assorbe, col primitivismo, una tipica malattia del suo tempo. Certo, se si pensa alla temperie generale, e in particolare al post-macchiaiolismo toscano, un’arte come questa non può non apparir singolare. Scriverà Boccioni due anni dopo, nel ’16, in occasione di una mostra del Magri a Milano: "Un’arte antifotografica, antiaccademica, che si riporta ad elementi primordiali, ci fa dimenticare la farraginosa complicata virtuosità della pittura di tutti i giorni. Ci allontana per un minuto da tutto il mestierame che soffoca ogni sincerità di emozioni». Ed ancora «nella maggior parte delle opere dell’ultimo ciclo, persa la definizione dei corpi come di solidi, subentra il contatto con l’atmosfera che genera slavature formali che spesso tolgono ai gesti ed alle composizioni, sempre attentamente studiate, gran parte della loro stessa definizione».
In realtà, quello che qui interessa della lezione di Magri è quell’esasperato cézannismo della materia pittorica, quasi ormai «a spatola», e quel suo stilizzare i volumi anche corporei (come del resto farà anche Piero Bernardini illustratore) che il Dei frequenterà in più di una sua stagione creativa, da rubricarsi come probabile 'primitivismo'. Ma nell’ambiente fiorentino, che è quello che il Dei respira fin dall’inizio, altre ancora erano le sollecitazioni. C’erano Gianni Vagnetti (un «crepuscolare della pittura», come lo definì Emilio Cecchi), Filli Levasti, Antony de Witt (con i suoi raffinati grafismi), ma c’era, fortissimo e sopra tutti, il timone critico di Ardengo Soffici. Proprio Soffici dirà perentoriamente, ad ammonire giovani e meno giovani come il Dei, che «manifestazioni d’arte fascista non saranno perciò né gli estetismi europeizzanti, né i pompierismi, né i surrealismi, magismi, futurismi ed altri decadentismi ed accademismi di sinistra e di destra, tutti di natura e spiriti forestieri, nordici, luterani e democratici massonici»; e poi ancora che «esempi patenti e ammirevoli nell’opera di molti pittori scultori, architetti, disegnatori e incisori, che da più anni lavorano lontani dai reclamismi, dalle camorre e dal laccheismo profittatore».
Ed ancora con due forti valenze dovevano fare i conti gli artisti esordienti come il Dei: con la figuratività essenziale di Viani (che tuttavia non sembra interiorizzarsi nel Dei, se non in parte minore nella sua grafica) e l’incombente astanza di Rosai. Quel Rosai che fu un innamoramento per tutti, magari per disconoscerlo, ma comunque onnipresente. Quel Rosai – come ebbe a riprendere Mario Luzi – che «poteva essere un solitario ma non un isolato. I collegamenti idonei, da Masaccio a Cézanne, furono sempre efficienti. Erano quelli necessari alla sua chiara volontà di ripristino del liguaggio pittorico, non difforme nella purezza da quella di altri maestri coevi, Carrà, Morandi, eppure enormemente diversa in questo: ché Rosai non poteva ammettere un nuovo linguaggio che non portasse notizia diretta dell’uomo e non fosse rappresentazione del suo stato».
Né vanno dimenticate, a proposito delle 'situazioni' che possono presiedere al «citazionismo» colto del Dei, le opere di Bruno Bècchi (1914–‘44), morto giovanissimo ma criticamente rubricato fra i pochi «surrealisti» toscani, dalla grafica gradevole, garbata e intellettualmente intricata (ricordato nel 1974, proprio da Parronchi).
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Un preassetto critico
Quando Michelangiolo Masciotta –nel 1969, alla Libreria Feltrinelli di via Cavour a Firenze– presenterà la mostra dell’Artista, dirà di due componenti della sua opera: «surrealismo e astrattismo, un astrattismo che è stato chiamato concreto, cioè inteso geometricamente e non l’astrattismo vagolante, un altro filone che certamente il nostro pittore (Dei) ha ripudiato. Il quadro qui ha chiuso un discorso, contrariamente a quanto succede in altre forme dell’arte moderna che aprono un discorso. Molte volte è giusto vedere l’antagonista per capire meglio la natura del quadro che ci sta vicino. La pittura che apre un discorso è quella che oggi chiamiamo col nome di informale o pittura d’azione. Una pittura, cioè che nella materia vivente del quadro è capace di produrre in chi l’osserva un cumulo di sensazioni e un cumulo di evasioni. Si può dire che la materia in sé e per sé è quasi proliferante da parte di chi guarda. Certamente questa seconda maniera impegna il riguardante più che la prima e lo induce anche al pericolo di continui fuorviamenti, in quanto che, portato dall’immaginazione, può dare a quello che è in luce nel quadro uno sviluppo che non è quello voluto e almeno quello sognato dal pittore stesso. Con Cesare Dei, invece, noi abbiamo la certezza di quello che egli non fa. Può piacere, può anche non piacere, ma in ogni modo, la definizione è certa: i suoi simboli sono simboli costanti, egli arriva alla sua verità. La sua verità può anche non essere la nostra, ma quello che conta è essere in una verità. Oggi non siamo in un tempo in cui tutti crediamo in una verità; siamo già contenti se ognuno di noi ha la sua verità e la verità di Cesare Dei è in questi emblemi, perché questi suoi quadri acquistano il valore di emblemi, in cui la sua vita diventa un dato sicuro, in cui egli si esprime con la sicurezza di un maestro che sa quello che vuole». -
Ma prima di suggerire un assetto critico allo svolgimento dell’opera di Cesare Dei, nel suo vasto spettro di tecniche artistiche, non si può sottacere la sua raffinata abilità grafica: la quale si è espressa in più occasioni, ma segnatamente nei «vicoli» e nelle «rughe» di Cortona, città ove insegnò per alcuni anni. Paesaggi urbani di grande suggestione quelli cortonesi. Michele Campana, in un’intervista radiofonica (in un tempo in cui queste si preparavano per iscritto, senza nulla lasciare all’improvvisazione), fissò così quell’esperienza:
«La suggestione dei vicoli non è sfuggita ad un artista fiorentino, il pittore Cesare Dei, che abita sull’Erta Canina in Oltrarno e che quindi fin da ragazzo ha un allenamento speciale a salire ed a scendere, non che a considerare le particolarità dei dislivelli. Egli è stato recentemente chiamato ad insegnare disegno nella Scuola Media di Cortona. Fin dal suo primo contatto con la città etrusca egli è stato preso dalla eccezionalità di tutto questo intrico di stradette a sdrucciolo od a scala ed ha incominciato a disegnarlo con grande amore, come se si trattasse di creare col segno e coi colori una meravigliosa fiaba; la fiaba cioè di tutti quei giochi di luce e d’ombra, che sono prodotti appunto dal salire da un fondo buio verso il cielo». Ed ancora: «Quasi tutti i vicoli disegnati da Cesare Dei (e sono molti) danno, per la maestria dell’arte sua questa sensazione di ascesa spirituale, che in definitiva, si voglia o non si voglia dai materialisti, è il desiderio di tutti i viventi: uscire dal buio, che ci pesa, per godere in alto la luce di Dio. Nella notte le lampade elettriche aumentano il gioco e quindi il fascino delle luci. Il pittore lo ha avvertito…». -
Lara Vinca Masini ha dato, dell’opera del Dei, almeno fino al ’71 (anno di una sua «antologica» presso la Sala dell’Accademia delle Arti del Disegno), la più lucida sistematizzazione critica; ed a quella, anche se con altra scansione ed altre addizioni temporali, dobbiamo riferirci. La tesi della Masini è che per riuscire a unificare in un filo conduttore le multiformi compresenze dell’iter pittorico di Dei, occorre andare fuori dalla pittura, «nel suo viver quotidiano, nei suoi differenziati interessi e, segnatamente, nel suo impegno nella letteratura per l’infanzia» (Il pulcino Pip, Il Micio così così, L’isola blu, Educart). Ad ogni buon conto, Lara Vinca Masini divide l’impegno dell’Artista in sei periodi :
1. Recupero metafisico del purismo quattrocentesco (1952–‘65)
2. Carattere metafisico maturo (1957–‘58)
3. Informale (1960–’63)
4. Le immagini luminescenti vicine ai «caprichós» goyani di accenti espressionistici (1964–’65)
5. Periodo geometrico
6. Periodo Neo–metafisico .La lettura della Masini termina nel ’71 e, se pur di grande e lucida utilità, non ci accompagna agli ultimi decenni di vita (1972–2000), anche se l’attività espositiva si farà assai più rarefatta in quest’ultimo periodo, manifestandosi nel ’72 alla «Galleria Stellaria», allo «Studio d’arte Il Moro», alla «Galleria Aglaia», al «Gruppo Donatello» nel ’99.
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In quest’ultima, in via degli Artisti, presentata da Elvio Natali, si dirà di una irrinunciabile libertà espressiva del Dei, individuando uno spazio «lirico-favolistico» quale contenitore del suo «sopramondo estetico, surreale, non surrealista».
Il profilo della sua poetica
Per pervenire ad un definitivo profilo artistico di Cesare Dei, non si può prescindere né da un più generale quadro dei rapporti con l’arte del Novecento, né con la dinamica del «sistema delle arti» così determinante nel secondo Novecento. Chiariamo subito che la sua presenza nel Novecento artistico è certificato soprattutto dalle sue mostre alla «Galleria del Cavallino» a Venezia (1962) e alla «Galleria Numero» a Milano (1964). In quelle due occasioni il Dei svela i capisaldi della sua poetica, evocando e dimostrando la sua confidenza con Mondrian, con Pollok, con Kandinsky: un passaggio obbligato che certifica il suo back-ground (arricchito o filtrato o solo sfiorato, non importa, da quei grandi nomi). E poi la sua trasgressione enunciata in diciotto punti, da considerarsi un vero e proprio compendio poetico, affidato all’occasione di una delle «gallerie» italiane (e internazionali) più prestigiose, quale fu «numero» di Fiamma Vigo (il cui ruolo è stato recentemente sottolineato dalle mostre al SESV e all’Archivio di Stato di Firenze):
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1. Assoluta impossibilità di due valori identici di circostanze identiche.
2. La ripetizione come costante inevitabile delle cose viventi.
3. La ripetizione come prigione della varietà.
4. La variazione come unità di misura della ripetizione.
5. Aggressività della variazione impercettibile.
6. Le innumerevoli diversità tra elementi di una stessa appartenenza e funzione.
7. L’unità nella pluralità.
8. L’organicità dell’insieme rispecchiata in ogni frammento.
9. Ogni insieme come nuovo frammento.
10. Un elemento e una forma che comprendano qualsiasi sviluppo ed evoluzione.
11. L’irregolarità delle forme regolari.
12. L’impostazione dispari come suggestione allo sviluppo.
13. Asimmetria nella simmetria, dinamica nella statica.
14. Una propulsione da un centro e un’attrazione verso lo stesso.
15. L’incompatibilità del centro geometrico col centro visivo.
16. Il quadrilatero come ideogramma della costrizione.
17. La curva della parabola e dell’ellisse come evasione dall’isolamento del cerchio.
18. Imitazione della natura come accordo di valori mutevoli in circostanze mutevoli. -
Ma se è ormai comunemente accettato che il critico sia un professionista della mediazione col pubblico, con gli amatori d’arte o con i semplici curiosi, Dei non aveva forse pienamente realizzato come solo il «critique–marchand»si ponesse a costruire l’opinione e l’immagine dell’arte, dell’artista e dell’opera in generale. Come avrebbe detto Jean-Luc Chalumeau nel ’94, «Or la critique d’art est effectivement empêchée, dans une large mesure, de jouer son rôle aujourd’hui. Depuis une vingtaine d’années, le "monde de l’art", au sein duquel elle n’a plus qu’un rôle marginal, a réellement promu, valorisé et imposé le n’importe quoi en tant qu’art. Le "monde de l’art" est en fait soumis aux impulsions et aux stratégies de quelques détenteur d’énormes moyens financiers, capables de peser sur les orientations des institutiones muséales et, de ce fait, sur le marché à l’échelle mondiale.»
Questa «critique emarassée» non fu mai cercata e fu sempre lontana dal Dei, il cui idealismo delle origini lo tenne sempre lontano e indenne da ogni intrapresa di mercato. Eppure, proprio la sua capacità di 'citare' avrebbe potuto aprirgli ben diversa attenzione e ben altro mercato. Su questo aspetto, a proposito della «Warhol Factory», si diceva, appunto, che «il y aurait eu trois Warhol…Le premier, simple dessinateur de publicités, le second, artiste Pop reconnu, le troisième, entrepreneur d’affaires» (Anne Cauquelin, PUF, Paris 1992).
Ora, il Dei è sempre rimasto iscritto all’artigianato dell’arte e mai all’industria dell’arte. E dunque nell’artisticità creativa di quella scuola a cui si formò, e a cui va ricondotta tutta intera la testimonianza della sua vita. -
Dalla ritrattistica alla neo-metafisica urbana
È mio parere conclusivo che al di là della suggestiva lettura data fin qua dell’insieme dell’opera del Dei, vi siano due grandi segmenti a cui affidare l’identificazione: il ritratto e la neo-metafisica urbana.
Per il ritratto, fatta eccezione per il suo Autoritratto con cuscino (1957), Irma (1956), il Ritratto del giudice Majuri (1959) e per Libri libri della figlia Adele (1960) – tutti splendidi oli alla maniera di Costetti – è alla vasta e bellissima produzione grafica degli anni 1928-’38 che si deve far riferimento.
Il ritratto del 1928, quelli del 1931 (Ritratto di donna, Ritratti 1 e 2); il bellissimo Ritratto 2 del 1933 (fatto a S. Agata di Mugello), gli Autoritratti del ’33 e del '34, sono tutti pezzi che lo collocano all’altezza della grande ritrattistica dei Costetti, dei Granchi, dei Catarzi e di tutta la couche non propriamente rosaiana degli anni ’30. Vi sono poi gli oli «neo-metafisici»: Sulla Ferrovia, Piloni e mare, Stabilimento, Refettorio, Costruzione (tutti del 1955) e il singolarissimo Labirinto (1957), a dimostrazione di una stagione breve ma intensissima ove è da cogliersi, davvero distillata, la personalissima poetica del nostro Artista. Il Labirinto, ovviamente, è tema mitologico, metastorico e affascinante: ma l’attualizzazione che ne dà il Dei, con nitide cortine di muratura che proiettano e accavallano ombre 'proprie' e 'portate' di una geometria descrittiva che egli conosceva molto bene, sembrano davvero un messaggio di sintesi, di una civiltà tanto affascinante e compromessa, tanto suggestiva e spregiudicata che fu la premessa prodromica alla complessità del nostro tempo. Dei colse sicuramente e tempestivamente il processo dissolutivo che incombeva; sentì la dimensione tragica della guerra e del disfacimento della 'modernità' e la volle testimoniare col suo linguaggio artistico: col «silenzio nudo» e la «quiete altissima» che aveva faticosamente guadagnato col suo paziente esercizio. Dunque non vie d’uscita, non postulati risolutori, ma citazioni per riflettere. E artigianali, per giunta.
Questa la sua grande testimonianza nel passato Novecento artistico.
F.G. , Art Diary Critic Monasteraccio , Firenze, febbraio 2006